Infermiera a Torino, la nostra compaesana Rosangela ha contratto il virus. La sua testimonianza

Rosangela Riccelli (25 anni) dentro e fuori il reparto Covid19

Li abbiamo ringraziati dai balconi con lunghi applausi, abbiamo appeso striscioni davanti gli ospedali, abbiamo dedicato loro emozionanti messaggi sui social, osannando al loro eroismo, al coraggio e alla grande forza di volontà che li guida anche in questo difficile momento. Sono medici, infermieri, anestesisti, ricercatori, oss e operatori sanitari che operano in ogni ambito per fornire la giusta assistenza a quanti hanno purtroppo contratto questo dannato virus. Non sono pochi poi i contagi che avvengono in quelle stesse corsie di ospedali e chi entra lì dentro sa bene a cosa va incontro, quali siano i cosiddetti «rischi del mestiere». Lo sanno bene anche i nostri compaesani impegnati in ogni parte d’Italia per fronteggiare questa emergenza. Soprattutto lo sa bene Rosangela, giovanissima infermiera di 25 anni, nostra compaesana nata e cresciuta nella piccola frazione di Simeri che da un anno e mezzo è impegnata nel suo quotidiano servizio presso una struttura ospedaliera di Chieri, in provincia di Torino, in una delle regioni italiane più colpite dal nuovo coronavirus.

Il reparto in cui Rosangela lavora, da un mese è divenuto interamente reparto dedicato all’emergenza Covid-19 e la nostra giovane compaesana si trova a lottare in prima linea per dare assistenza e sostegno ai tanti pazienti positivi lì ricoverati. Mascherine, occhiali, camici, calzari, guanti, cuffie, sono i Dpi a disposizione dei sanitari, gli stessi dispositivi che non sempre sono disponibili in quantità sufficienti per rispondere alle richieste degli ospedali e quando questi finalmente arrivano, molti sono completamente inidonei per preservare la salute di chi li indossa. Non si può fare altrimenti e si corre il rischio. Finché non si andranno a manifestare quei primi sintomi che permetteranno di effettuare l’ormai nota prova del tampone. Molti operatori, il virus non sanno di averlo già contratto e non lo sapeva neanche Rosangela. Per lei quel tampone era solo a scopo precauzionale per via della nuova circolare ministeriale che impone il test a tutti coloro che in questi reparti prestano servizio. Lo scorso 26 marzo Rosangela riceve il responso: il tampone è positivo. 

Cosa hai pensato quando Hai ricevuto la notizia del tampone?

«In realtà ero consapevole del rischio e della forte contagiosità, avevo in parte realizzato la cosa. La paura più grande è stato dirlo ai miei, immagina la preoccupazione…».

Certo, come hanno reagito i tuoi genitori?

«Beh, naturalmente molto preoccupati considerando anche e soprattutto che sono tanti i chilometri che ci separano. Purtroppo quello che si vede in tv è tutto vero. Li ho subito tranquillizzati per quanto possibile dicendogli di essere asintomatica. Li sento più volte al giorno, anche con video-chiamate, in modo tale da rassicurarli sul mio stato di salute. Attenzione però, perché il fatto che si possa presentare in forma lieve non deve di certo far abbassare la guardia, soprattutto ai giovani che possono pensare che la cosa non li riguardi perché non soffrono di alcun problema».

Dunque ad oggi stai abbastanza bene?

«Ad oggi, fortunatamente, presento disgeusia (alterazione del senso del gusto) e anosmia (perdita del senso dell’olfatto). Sono in quarantena qui nella mia casa in Piemonte e per tornare a lavorare dovrò prima attendere almeno l’esito di due tamponi negativi. Non presentando sintomi significativi, non me ne sarei mai accorta se non avessi fatto il tampone». 

Ci descrivi qual è la situazione nei reparti?

«Credimi, è surreale. È una situazione che in nessun corso o a nessun esame, o nessuno nella sua carriera ha mai vissuto. Ci ha colti impreparati, abbiamo preso sotto gamba la cosa. Purtroppo la gente non ha la minima idea delle loro azioni, anzi delle conseguenze. Pazienti che non vedono i loro cari da settimane, sono blindati in reparto. Ci supplicano per fare dei video o delle videochiamate. Al momento del decesso nessuno assiste al rito funebre e ultimamente le pompe funebri non riescono neanche a preparare la salma, rimangono nei lenzuoli, chiusi nella bara, poi cremati e consegnati ai familiari. Una morte che avviene nel silenzio e nel dolore. Senza la possibilità di portare neanche un fiore». 

Oltre alla difficoltà morale immagino anche quella fisica…

«Purtroppo sì, molti reparti funzionano normalmente, il nostro invece è sottoposto ad isolamento. Per 12 ore nessuno entra, nessuno esce. La doccia si fa sul posto. Bere diventa un’impresa e per mangiare un boccone o andare in bagno dovresti svestirti e poi rivestirti. Quindi spesso salti tutte queste cose e stai 12 ore a lavorare no stop e dopo così tante ore sono inevitabili i tagli sul viso causati dalla maschera, per non parlare poi della tuta che diventa un isolante e fa un caldo da morire».

Le restrizioni stanno funzionando secondo quanto puoi vedere da vicino?

«Io sono dell’idea, in virtù del potere che è stato conferito alle singole regioni, che bisognerebbe imporre l’obbligo di indossare la mascherina. È altresì necessaria l’attivazione di associazioni preposte alla consegna di pacchi contenti beni di prima necessità e anche i farmacisti dovrebbero rendere fruibile il servizio a domicilio. Meno uscite, meno passeggiate. È fondamentale. Ora più che mai si deve avere la consapevolezza che ci si contagia anche dalle superfici. Ci sono ancora poche evidenze in merito, ma credimi, noi che in reparto abbiamo usato precauzioni su precauzioni, ci siamo comunque ammalati. Secondo un’indagine, inoltre, sarebbero moltissimi gli infetti tra il personale, ma si continua a lavorare perché purtroppo, finché non si è sintomatici il tampone non viene effettuato, mettendo così a rischio anche chi vive con un professionista sanitario. Mettiamo a rischio noi stessi e gli altri. Ogni persona potenzialmente contagia 10 persone. La gente dovrebbe capire che anche il semplice evitare di andare a fare la spesa tutti i giorni, alleggerirebbe tanti posti in ospedale, permettendoci di fornire una migliore assistenza. Dovesse arrivare un paziente con politrauma o infarto, rischierebbe di non farcela o di non ricevere immediata assistenza solo perché i pronto soccorso sono al collasso». 

Cosa ti senti di dire ai tuoi compaesani di Simeri Crichi?

«Ai miei compaesani, vissuti con valori forti e indissolubili, che mettono la famiglia al primo posto, che più volte hanno dimostrato di voler bene anche al loro caro paese, dico, soprattutto ora, di avere cura dei propri cari e della comunità. Dimostrate ora più che mai senso civico e umano. State a casa e nel limite delle possibilità aiutate chi è in difficoltà: un vicino, un anziano che non può uscire, una famiglia in difficoltà perché senza lavoro. Che i colori politici non siano frutto di divisione, ma di compartecipazione e unione solidale per la “cosa pubblica”. Le associazioni si rendano disponibili come sempre e invito i donatori a continuare a donare, complimentandomi per il lavoro svolto dall’Avis locale così come dalla Croce Rossa, sul nostro territorio rappresentata dalla dott.ssa Nagero. Mi auguro veramente che tutti comprendano il rischio e abbiano cura di sé e dei loro cari, dai nonni ai tutti i nostri parenti, nessuno è escluso da questa emergenza. Nei bollettini giornalieri della Protezione Civile non guardate ai deceduti come ad un numero, dietro ognuno di essi c’è una famiglia ed una storia». 

 

DALLA NOSTRA REDAZIONE UN INFINITO GRAZIE A QUESTA GIOVANE E GRANDE GUERRIERA, CON GLI AUGURI PIÙ SPECIALI PER UNA PRONTA GUARIGIONE!


Rosangela, prima da destra, con alcuni colleghi del reparto

Pubblicato da Filippo Coppoletta

Direttore responsabile.