“Basta”. È forma impersonale del verbo “bastare”, che a seconda dei significati ha un duplice uso. S’intende “basta” come forma verbale con significato di “è sufficiente”, e si usa “basta” in forma esclamativa, a voler dire “Stop, ferma!”. È un termine che il 25 di novembre di ogni anno viene scritto a caratteri cubitali e trasmesso su ogni canale comunicativo possibile. “Basta femminicidi”, “Basta violenza sulle donne”, e ogni volta che si ripete la notizia del massacro di una donna “Basta davvero”.
Ma tutto ciò, davvero basta?
Attenzione, qui non si biasima il dedicare una giornata intera all’anno al tema della violenza contro le donne. Anzi, si deve porre l’accento sulla piaga che soffoca le donne e preoccupa tutta la nostra società. È sacro ricordare le vittime, ripercorrerne le storie e instaurare un dibattito che debba sensibilizzare l’intera società e dal quale magari riescano a mettersi in salvo altre donne che vivono situazioni pericolosissime spesso antecedenti al massacro. D’altro canto non bisogna fermarsi alle celebrazioni, alle scarpette rosse e ai segni di rossetto tracciati sui volti, perchè – è un’ovvietà – tutto questo non basta.
Nel Paese in cui l’educazione all’affettività e la cura della propria salute mentale sono un tabù, a cosa volete che basti il solo 25 novembre.
Nel Paese in cui si dà maggior risalto alla conta dei danni piuttosto che alla prevenzione, a cosa volete che basti il solo 25 novembre.
Nel Paese in cui le vittime di violenza sessuale diventano le colpevoli istigatrici di “bravi ragazzi”, a cosa volete che basti il solo 25 novembre.
Nel Paese in cui è un fenomeno condiviso quello di “farla pagare” alla propria partner attraverso la diffusione in rete di proprie foto intime, a cosa volete che basti il solo 25 novembre.
Nel Paese in cui si ci attiva solo e soltanto sulla scia dello sdegno provato per un delitto particolarmente cruento, nel quale la vittima giovanissima è stata ammazzata da un carnefice altrettanto giovane, a cosa volete che basti il solo 25 novembre.
A questo punto viene spontaneo chiedersi cos’altro si può e si deve fare per estirpare il male.
Una risposta arriva da chi le donne vittime di violenza le accoglie e le cura da anni. Non tantissimi mesi fa in una riflessione pubblicata sulle pagine del quotidiano “la Stampa”, Elisa Ercoli, presidente di “Differenza Donna Aps-Ong”, ha sottolineato come chi gestisce i centri antiviolenza deve “elemosinare attenzione, considerazione, ascolto, ma anche, banalmente, pagamenti regolari dei contributi pubblici che destiniamo alle case rifugio dove facciamo vivere h24 donne salvate dai violenti e i loro figli e troppo spesso chiedere supporto come fosse un “favore” a noi e non un dovere verso cittadine cui viene negato il diritto alla vita”. L’articolo prosegue con una parte significativa che si riporta per intero: “Le leggi ci sono, ma vengono di continuo sminuite nella loro efficacia e spesso inapplicate. La violenza maschile contro le donne è affrontata ancora con un tema minore, qualcosa rispetto al quale ciascuno può prendere parola per esprimere opinioni. Invece serve conoscenza, competenza, esperienza e una azione di rete potente per contrastarla e prevenire tragedie simili. Esiste un’unico modo di affrontare il contrasto alla violenza proteggere le donne le bambine/i, credere alle donne, formare e sensibilizzare le Istituzioni, agire nelle scuole, nelle aziende, nelle comunità, punire severamente gli uomini violenti, sostenere i Centri di donne esperte che le accolgono nel lungo percorso di uscita”, chiudendosi con la richiesta che il tema della violenza sulle donne diventasse prioritario nelle agende di tutte e tutti noi. In estrema sintesi educazione, conoscenza e sensibilità.
Il tema è tornato prioritario sì, ma soltanto in questi giorni, a seguito della morte terrificante della giovane Giulia. Una morte procurata dalla stessa mano che avrebbe dovuto accompagnarla alla seduta di laurea imminente. Scossa l’opinione pubblica, che prolifera contenuti su ogni media alcuni dei quali francamente imbarazzanti, buttati là “purché se ne parli” o perché funzionali per i like o lo share. Scossa la politica che approva in fretta un disegno di legge per il rafforzamento delle misure di tutela delle donne in pericolo, che annuncia l’aumento “considerevole” di fondi per il piano anti-violenza e per la tutela delle donne in uscita da situazioni di violenza, nonché di una campagna di sensibilizzazione nelle scuole, che – opinione personale – se non supportata da un’adeguata educazione famigliare non saprei quanto possa risultare efficace. Scossi tutti perché mentre contiamo la vittima 105, danno la notizia della 106esima, quando in realtà l’emergenza dovrebbe scattare già alla vittima numero 1, e veniamo a scoprire che a Milano nel weekend un’altra giovanissima donna ha denunciato uno stupro, che l’ennesima ragazza si ritrova col volto sfregiato dall’acido che le ha lanciato addosso il suo ex. Ben venga l’indignazione, ben venga il 25 novembre, ben vengano le proposte, ma il rischio è che una volta dispersa l’eco mediatica per un caso di cronaca particolarmente carico di sdegno si abbassi la guardia e si torni indifferenti almeno fino a che non se ne consumi un altro.
È in questi giorni diventata virale in rete una poesia della poetessa peruviana Cristina Torre Cáceres, di cui sotto riportiamo gli ultimi versi:
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.
E lo dobbiamo volere tutti.